Un argomento molto discusso, delicato, è quello delle molestie a tutto tondo. La cronaca purtroppo ci riporta ogni giorno racconti poco piacevoli, più o meno gravi. Ma a volte un atteggiamento o una parola che consideriamo “normale”, può davvero metterci nei guai. Un fatto incredibile lo prova.
Ci sono parole o gesti che rientrano nella categoria delle molestie, ma spesso non sappiamo bene a cosa ci si riferisce.
Il vocabolario Treccani definisce molestia “Sensazione incresciosa di pena, di tormento, di incomodo, di disagio, di irritazione, provocata da persone o cose e in genere da tutto ciò che produce un turbamento del benessere fisico o della tranquillità spirituale”.
Per molestia si intende anche “l’atto di infastidire con comportamenti, parole o atti indesiderati a sfondo sessuale”. Riguardo questo aspetto, il capitolo è a parte, e le questioni arrivano spesso sui tavoli dei tribunali.
La lista dei comportamenti e delle parole che rientrano nella categoria delle molestie, è ampia e in continuo aggiornamento. E’ il caso di una sentenza molto dibattuta che ha fatto il giro del mondo. E che potrebbe cambiare il nostro modo di comportarci.
Attenzione alle parole e ai contesti.
La sentenza arriva dal Regno Unito, dove un uomo di 64 anni, Tony Finn, ha citato in giudizio l’azienda manifatturiera British Bung Company nel West Yorkshire, dove aveva lavorato per 24 anni.
Il fatto risale al 2019, quando fin ha avuto una discussione animata con il supervisore della fabbrica Jamie King, riguardo le condizioni di lavoro in fabbrica. Il superiore si sarebbe rivolto all’elettricista definendolo “calvo”, insieme a definizioni scurrili e la minaccia di aggredire fisicamente Tony Finn.
L’uomo a questo punto, aveva minacciato i vertici dell’azienda di denunciarli, e la risposta è stata una lettera di licenziamento. Finn, rivoltosi al tribunale del lavoro, ha chiesto risarcimento per “licenziamento ingiusto, discriminazione basata sull’età e molestie sessuali”.
I tre uomini del collegio giudiziario, hanno riconosciuto l’offesa “c***o calvo” come una vera e propria “molestia sessuale“, spiegando che “A nostro giudizio c’è una connessione tra la parola ‘calvo’ da un lato e una caratteristica tipica del sesso dall’altra“. E all’avvocato dell’azienda che ha obiettato che anche le donne possono essere pelate, i giudici hanno risposto che “la calvizie è molto più prevalente negli uomini rispetto alle donne“.
Resta da definire solo il totale dell’indennizzo che la ditta dovrà riconoscere all’uomo, come risarcimento.